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Appendice

Ingmar Bergman dirige O’Neill. La messa in scena di
Lång dags färd mot natt a Dramaten nel 1988

Quella di mettere in scena Long Day’s Journey into Night a Dramaten[1] nel 1988 fu una scelta doppiamente celebrativa: in quell’anno cadevano infatti sia il centenario della nascita di Eugene O’Neill, sia il bicentenario della fondazione del grande teatro di Stoccolma, che tanto contribuì a risvegliare l’interesse mondiale per il drammaturgo americano dopo la sua morte, avvenuta nel 1953.

Fu  nello  splendore  liberty  della  Sala Grande che  Journey  -  nella  traduzione svedese Lång dags färd mot natt - ebbe la sua prima assoluta il 2 febbraio 1956, su richiesta della vedova di O’Neill[2] all’allora direttore artistico del teatro, Karl Ragnar Gierow, nonostante sul dramma gravasse un precedente divieto di pubblicazione e messa in scena fino a 25 anni dalla morte dell’autore, a causa della delicata materia autobiografica in esso trattata.  La pièce, diretta dal giovane regista Bengt Ekerot[3], riscosse un tale successo di critica e di pubblico che ancora oggi   la si considera “the greatest success  in the history of the Royal Dramatic Theatre”[4]: rimase in cartellone fino all’autunno del 1962, per un totale di oltre duecento rappresentazioni (una cifra miracolosa per un teatro esclusivamente di repertorio, quale è Dramaten) e diede il via a una poderosa riscoperta dell’opera di O’Neill, sia in Europa che negli Stati Uniti.  Lars Norén, allora diciottenne, era fra gli spettatori di una delle ultime repliche e racconta di averne ricevuto un’impressione indelebile.[5]

Non  si  trattava,  del  resto,  del primo  dramma di O’Neill rappresentato a Dramaten.  Il teatro aveva negli anni sviluppato una  vera e propria  tradizione  negli  allestimenti di pièces di questo autore[6], a cominciare dalla produzione di Anna Christie nel 1923 per la regia di Gustav Hellström, con Tora Teje nel ruolo che la sua più nota connazionale Greta Garbo avrebbe interpretato  sette  anni più tardi sullo schermo[7].

Altre produzioni importanti furono:  la versione di  Strange Interlude, messa in scena nel 1928 da Per Lindberg; la regia  di  Olof Molander  per  Mourning Becomes Electra  del 1933  (in entrambi i casi, si trattò di due prime europee); l’allestimento di All God’s Chillun Got Wings, diretto da Alf Sjöberg e scelto per inaugurare nel 1945 la seconda sala di Dramaten, poi nota come Lilla Scenen (La Sala Piccola); infine  The Iceman Cometh  e  A Moon for the Misbegotten,  entrambe per la regia di Molander, messe in scena rispettiva-mente nel 1947 e nel 1953.

O’Neill fu sempre consapevole della notevole attenzione che Dramaten riservava ai suoi testi, come dimostra l’ampio carteggio conservato nell’archivio del teatro.  Nel telegramma che inviò dagli Stati Uniti in occasione della messinscena di All God’s Chillun Got Wings  si legge:

I remain as ever deeply grateful to the Swedish theatre for all it has done for my work.[8]

Fu probabilmente questa lunga tradizione di produzioni di successo e di qualità   (in contrasto con la ricezione spesso poco lusinghiera degli ultimi drammi negli Stati Uniti), insieme all’alto onore del premio Nobel, conferitogli dagli Accademici di Svezia nel 1936, a determinare la clamorosa decisione - presa da O’Neill poco prima della sua morte, nel 1953 - di concedere al teatro di Stoccolma l’autorizzazione a mettere in scena  Journey.           

Carlotta Monterey spiegò così la decisione del marito in una lettera a Karl Ragnar Gierow:

He would have liked it to be produced in your theatre in gratitude for the excellent performances it had given his plays over the years; [...] he felt you and Sweden would understand the tragic undertones of the play and not produce it as a sensational melodrama.[9]

Ecco  allora  che  la riproposta del dramma più celebre e personale di O’Neill  da parte di Ingmar Bergman (anch’egli figura centrale nella storia di Dramaten e suo direttore artistico dal 1963 al 1966), nella stessa sala in cui trentadue anni prima la  pièce  aveva  fatto il suo debutto, parve  a   tutti  una  perfetta  celebrazione sia del drammaturgo scomparso, sia  dei  fasti  del teatro svedese. 

Era la prima volta che Bergman affrontava un testo di O’Neill, il che può  sembrare strano,  se si considera l’evidente affinità di gusti tematici (la riflessione sulla crisi  della famiglia e della coppia borghesi è centrale anche nella produzione cinematografica e narrativa dell’artista svedese), e l’autentica ossessione autobiografica - propria anche di  Lars Norén e riconducibile al comune “padre spirituale” Strindberg - della quale sono preda  i due autori.     

Come il drammaturgo americano, Bergman si è sempre mostrato “concerned with the relation between man and God”[10]; esattamente come O’Neill, è spesso stato interpretato secondo moduli di psicoanalisi freudiana; entrambi, infine, ci hanno dato la chiave per decifrare e comprendere appieno l’intera loro opera nei lavori autobiografici della maturità: O’Neill in Journey e The Iceman Cometh;  Bergman nel film  Fanny och Alexander[11] e nella raccolta di memorie Lanterna Magica[12]

Come  prima considerazione sulla messinscena[13]  possiamo dire che,  rispetto a gran parte delle precedenti interpretazioni della pièce (fra cui la stessa prima mondiale, diretta da Ekerot, e la prima newyorkese del novembre 1956, diretta da Josè Quintero a Broadway), l’approccio di Bergman è decisamente meno realistico.  Il testo è stato tagliato in più punti (lo spettacolo dura circa un’ora in meno delle previste quattro ore e trenta minuti), conformemente alla tendenza a ridurre tipica  del regista  e al suo desiderio di eliminare, nella struttura della rappresentazione, gli aspetti non essenziali al raggiungimento di “una efficace e limpida emozione teatrale”[14].  A risentire dello snellimento sono in particolare: la parte della cameriera, che compare in scena solo di sfuggita, e le numerose citazioni letterarie con cui i tre personaggi maschili infarciscono i loro discorsi, specie nell’ultimo atto. È stata inoltre quasi completamente eliminata la pletora di dettagli “d’atmosfera” (mobili, tendaggi, libri, lampade, ecc.: tutte le suppellettili da interno  borghese ampiamente descritte da  O’Neill nelle lunghe indicazioni  sceniche), che sembravano costituire il set obbligato per questa pièce e che Bergman definisce “cianfrusaglia”[15]

Dialoghi e scenografia subiscono un radicale sfrondamento, in linea con il totale rifiuto, da parte di Bergman, delle convenzioni naturalistiche: in  questo modo  va  forse persa  l’atmosfera  gustosamente  irlandese  che pervade la pièce, nonché i riferimenti al tempo dell’azione, ma i tagli non recano danno all’effetto complessivo del dramma, che sembra anzi guadagnarne in intensità.

La scena - progettata dalla collaboratrice usuale di Bergman, Gunilla Palmstjerna Weiss - consiste in un grande spazio nero (la notte reale e metaforica del titolo), dentro al quale è evidenziata una piattaforma quadrata.  Questa è illuminata dall’alto (con una luce “fredda”, a dominante violetta, che incide quasi graficamente i contorni) ed è arredata con pochi oggetti significativi: una consumata poltrona marrone sulla sinistra (ricordo della produzione del 1956), un tavolo rotondo a destra, quattro sedie scompagnate (simbolo della tragica separatezza dei quattro personaggi, ma anche della loro stimolante varietà caratteriale) e, disposte simmetricamente agli  angoli sul fondo, due colonnine doriche  di diversa  misura che fungono da (immancabili) armadietti dei liquori.

Si ha l’impressione di osservare una zattera alla deriva che, nel corso del  lungo “viaggio” della giornata, sarà inghiottita dall’oceano di tenebre circostanti. Il palcoscenico è anche una visualizzazione ideale del verso shakespeariano (citato, nel dramma, da James Tyrone): “our little life is rounded with  a  sleep”[16].   Come  nella  Tempesta,  i  personaggi  di Journey sono naufraghi spirituali, in balìa dei flutti della memoria  e  incapaci di liberarsi dal peso morto di un passato che finirà per trascinarli a fondo.

Alla fine del Terzo Atto, la scena è rovesciata e ci viene mostrato lo spazio ancora più disadorno alle spalle del soggiorno, dietro le colonne-bar.  Facendone un esterno (la veranda del cottage), il regista rompe  l’unità di luogo voluta da O’Neill, che ambientava l’intero testo all’interno della casa estiva. Sul palcoscenico, ora immagine intensificata di un deserto dell’anima, rimangono solo tre sedie distanziate e un piccolo tavolo da giardino.

Il senso di uno spazio simbolico, non referenziale è accentuato dall’uso di proiezioni, che appaiono e impercettibilmente scompaiono sullo sfondo, come brani appena intravisti di una realtà fuggevole: la facciata del Monte Cristo Cottage a New London, la finestra del ripostiglio in cui Mary si rifugia per iniettarsi la morfina, una porta chiusa a dirci che non c’è via d’uscita da questo quartetto infernale.  E ancora: nuvole in movimento, un tremolante, grottesco disegno di carta da parati che fa pensare alla danza delle alghe sul fondo del mare, la sagoma di un albero che si staglia luminosa sullo schermo come una promessa di rigenerazione - nonostante tutto  -  alla fine del dramma. 

A tale accompagnamento onirico di immagini si affianca l’impiego di suoni astratti (un funebre accordo di violoncello introduce la sirena della nebbia come in un rituale) e la realizzazione di una singolare pantomima: all’apertura di ogni atto, i quattro attori salgono lentamente sulla piattaforma e, tenendosi vicendevolmente per mano, danno vita a un tableau vivant, espressione della profonda, benché problematica, tenerezza  che  li   lega   l’uno  all’altro.   Dopo  pochi  attimi,  la figura  si  dissolve  e  il  dramma ha inizio. 

Questa intensa immagine può essere interpretata come illustrazione del ritmo psicologico alla base del dramma: il movimento dei singoli personaggi da una fragile unione mattutina all’irrimediabile separatezza notturna; oppure, la si può intendere come wishful thinking, desiderio o rimpianto nascosti per un’armonia famigliare che non c’è.  Si tratta, in ogni caso, di una raffigurazione eloquente di quel “pity, understanding and forgiveness for all the four haunted Tyrones”[17], a cui O’Neill si riferisce nella dedica introduttiva della pièce, nonché di un forte riferimento metateatrale, di cui Bergman si è servito in altre sue regie per sottolineare l’esilità dell’illusione scenica.

Nel finale, i personaggi si allontanano ognuno in una direzione diversa (nel testo restavano, sartrianamente, imprigionati nella stanza), sprofondando nell’oscurità e visualizzando con grande impatto emotivo la poesia di Swinburne “The Leave-Taking”, che O’Neill faceva (un po’ melodrammaticamente) recitare a Jamie. Dando espressione plastica al congedo del titolo, Bergman colora la chiusa di un senso esistenziale: uno dopo l’altro, i Tyrone lasciano la zattera della vita, condannati a compiere in solitudine la traversata verso il nulla.

Edmund è l’ultimo a scomparire: prima di allontanarsi verso il fondo, prende in mano il suo quaderno-diario di bordo (da cui, nel corso dell’ultimo atto, ha letto interi brani) e lo porta con sé.  Con questo gesto, l’alter ego di O’Neill indica la sua volontà di registrare ciò che ha vissuto, trasformando l’esperienza autobiografica in letteratura. Mentre Edmund lascia la scena, la proiezione fosforescente  di   un  albero   - simbolo  della famiglia e delle intricate relazioni al suo interno - riempie la parete di fondo.

Attraverso tutti questi accorgimenti e grazie a un ensemble di attori eccezionalmente affiatato, Bergman realizza una versione di Journey come non si era ancora vista: un vero e proprio “dramma del sogno” (dreamplay) in cui, come nell’opera omonima di Strindberg, è forte il sentimento di irrealtà della vita e l’unica certezza è l’interiore tormento degli esseri umani.  

Come  scriveva  lo  stesso  Strindberg  nella  nota introduttiva a  Ett drömspel   (messo  in  scena  da  Bergman  per ben tre volte nel  corso della sua carriera):

Författaren har [...] sökt härma drömmens osammanhängande men skenbart logiska form. Allt kan ske, allt är möjligt och sannolikt. Tid och rum existera icke; på en obetydlig verklighetsgrund spinner inbillningen ut och väver nya mönster: en blandning av minnen, upplevelser, fria påhitt, orimligheter och inprovisationer.

Personerna klyvas, fördubblas, dubbleras, dunsta av, förtätas, flyta ut, samlas. Men ett medvetande står över alla, det är drömmarens; för det finns inga hemligheter, ingen inkonsekvens, inga skrupler, ingen lag. Han dömer icke, frisäger icke, endast relaterar; och såsom drömmen mest är smärtsam, mindre ofta glättig, går en ton av vemod och medlidande med allt levande genom den vinglande berättelsen.[18]

Il compito di osservazione distaccata, al quale Strindberg si riferisce nella Prefazione, è affidato nel dramma di O’Neill  al  personaggio   di   Edmund  che,  in virtù della sua posizione di outsider, può controllare in modo privilegiato i delicati equilibri  della  famiglia  e  fare  da  trait  d’union  fra  attori  e pubblico. Nella messinscena bergmaniana, Edmund (interpretato da Peter Stormare) è davvero la “coscienza del sognatore” di cui parla Strindberg, ed è anche un “doppio” del regista: esattamente come Bergman cerca di fare con i membri della sua famiglia in Lanterna magica, Edmund è colui che più si sforza di comprendere gli altri personaggi, gettando una rete di affetto e comunicazione che avvicini le loro rispettive solitudini.[19]

Per quanto riguarda gli altri interpreti: Jarl Kulle (che aveva interpretato  Edmund  nella  prima mondiale  del  testo a Dramaten   trentadue   anni  prima)   è   un   autoironico   James Tyrone,  “un  istrione  da  capo a  piedi”[20]  che  recita  in  salotto come se si trovasse sul palcoscenico, un padre dalla tragicomica ingenuità, che ha continuamente bisogno di giustificarsi davanti al figlio.  La recitazione di Kulle - presente in molti film di Bergman,  fra cui Sommarnattens leende (Sorrisi di una notte di mezza estate, 1955) e Fanny och Alexander - accentua la spontaneità e lo spirito combattivo del personaggio, ma anche la sua natura irrimediabilmente divisa fra il desiderio tutto borghese di rispettabilità (indossa un’elegante vestaglia) e una volgarità dura a morire (abbina la vestaglia a logore pantofole di pessimo gusto e parla a voce troppo alta).

Il ruolo di Mary Tyrone è interpretato da Bibi Andersson, altra tradizionale interprete bergmaniana.  Abbigliata secondo la moda d’inizio secolo, al principio del dramma Mary indossa un lungo vestito grigio-viola (colore proverbialmente associato alla morte): esso può indicare simbolicamente il suo luttuoso attaccamento a un idealizzato passato di innocenza ormai perduto; il grigio della base, inoltre, rimanda alla nebbia che - man mano che la giornata avanza - si fa sempre più fitta.  La Andersson interpreta il personaggio in modo stilizzato e allusivo: il suo volto è una maschera tragica che, in perfetto accordo con gli intenti antinaturalistici della regia, va al di là di una semplice mimesi realistica.  A metà del lungo monologo che chiude la rappresentazione, ad esempio, si lascia cadere a terra come una bambola (mentre il testo di O’Neill prescrive che Mary scuota il capo e si passi le mani tra i capelli).

Infine, l’interpretazione che Thommy Berggren diede del  ruolo  del figlio maggiore, Jamie, fu considerata dai critici la più forte delle quattro prove attoriali. Lars Linder lo definì “un ghignante ma perspicace beone sull’orlo della disperazione”[21].   Insieme, i quattro attori sanno dar vita a:

una ben orchestrata sinfonia da camera di umori contrastanti, cadenze caratteristiche, arie e silenzi. Leggendo il dramma come [...] uno spartito musicale, [Bergman] cerca e trova l’accesso al più profondo paesaggio strindberghiano, sotto a una corazza ibseniana di ordinato realismo.[22]

Bergman  si  è  spesso  mostrato  sensibile   al contrasto fra realtà  e illusione, volto e maschera, e ha dedicato al problema uno dei suoi più memorabili e intensi film: Persona (1966). Quello di indossare una maschera (per poi lasciarla cadere, rivelando così la verità drammatica che sotto di essa si cela)  è un tratto comune ai quattro Tyrone: ognuno di loro ha bisogno di calarsi in un ruolo che lo renda accettabile agli altri e prima di tutto a se stesso, o meglio, all’ideale che nutre di sé.  Secondo O’Neill l’impiego, anche metaforico, della maschera poteva aiutare il drammaturgo a esprimere “those profound hidden conflicts of the mind, which the probings of psychology continue to disclose to us”[23], e a presentare efficacemente “the inner forces motivating the actions and reactions of men and women: a drama of souls [...] with the masks that govern them and constitute their fates”.

La  messa  in  scena   bergmaniana  di  Journey  si  propone  come un esercizio di smascheramento: un tentativo di estrarre la rarefatta essenza tragica del dramma (quello che i Marker chiamano il “paesaggio strindberghiano”[24] della pièce, e a cui O’Neill si riferisce con l’espressione “a drama of souls”[25]), che nel testo si nasconde sotto una  superficie  naturalistica  e  spesso  lievemente  melodrammatica (la “corazza ibseniana”).   In questo senso, lo spettacolo fornisce una possibile risposta affermativa  alla  domanda,  che assillò  O’Neill   lungo  tutta  la  sua avventura drammaturgica:

Is it possible to get modern psychological approximation of Greek sense of fate [...], which an intelligent audience of today, possessed of no belief in gods or supernatural retribution, could accept and be moved by?[26]


[1] Abbreviazione di uso più comune, rispetto al nome completo del teatro: Kungliga Dramatiska Teatern. Fondato nel 1788 da Re Gustavo III, che lo intendeva principalmente come istituzione finanziata dalla corona per la messa in scena di commedie in lingua svedese (la gran parte dei lavori teatrali del tempo era presentata in francese), il teatro subì vari spostamenti di sede, fino ad approdare alla palazzina attuale di Nybroplan, che fu inaugurata il 18 febbraio 1908 con il dramma in versi di Strindberg Mäster Olof.

 

[2] Carlotta Monterey, nominata dal marito sua unica esecutrice testamentaria.

 

[3] Al pubblico internazionale Ekerot è senz’altro più noto come attore che come regista, in particolare grazie all’indimenticabile ruolo della Morte, che interpretò nel film di Bergman Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, 1957).

 

[4] “Il più grande successo nella storia del Teatro Reale Drammatico”. Olsson, T., “O’Neill and the Royal Dramatic”, in: Floyd, V. (ed.), Eugene O’Neill. A World View, New York, Frederick Ungar,1979, p. 50.  Il  cast era costituito da alcuni dei migliori attori svedesi del tempo, in particolare: Inga Tidblad nel ruolo di Mary e Lars Hanson in quello di James.

 

[5] Vedi:  Törnqvist,  E.,  “Strindberg, O’Neill, Norén.  A  Swedish-American  Triangle”,  in:  The Eugene O’Neill Review, 15:1, 1991, p. 69.

 

[6] Per una trattazione approfondita di queste messe in scena, si veda il saggio di Tom Olsson contenuto in: Floyd, V., op. cit., pp. 34-60. Olsson ha appropriatamente definito Dramaten “O’Neill’s Bayreuth” (la Bayreuth di O’Neill): ibid., p. 45.

 

[7] La versione cinematografica del dramma, prodotta dalla MGM nel 1930 e diretta da Clifford Brown, è il primo film sonoro in cui la Garbo comparve. Un’altra celebre attrice svedese, Ingrid Bergman, si misurò con la parte di Anna nel 1941 a teatro (in una messinscena, diretta da John Houseman, che piacque molto a O’Neill). Si veda in proposito: Wainscott, R., “Notable American Stage Productions”, contenuto in: Manheim, M.(ed.), The Cambridge Companion to Eugene O’Neill, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 96-115, e Eisen, K., “O’Neill on Screen”, ibid., pp. 116-134.

 

[8] “Rimango come sempre profondamente grato al teatro svedese per tutto ciò che esso ha fatto per il mio lavoro”. Riportato in: Floyd, V., op. cit., p.41.

 

[9] “Avrebbe voluto che [il dramma] fosse messo in scena nel Suo teatro in riconoscenza delle eccellenti produzioni dei suoi drammi che [Dramaten] aveva realizzato nel corso degli anni; egli credeva che Lei e gli Svedesi avreste saputo comprendere le sfumature tragiche della pièce e non l’avreste rappresentata come se si trattasse di un melodramma ad effetto”. La lettera è riportata in: Floyd, V., op. cit., p. 45.

 

[10] “Interessato al rapporto fra uomo e Dio”. Citato in: Törnqvist, E., “Ingmar Bergman Directs Long Day’s Journey into Night”, New Theatre Quarterly, 5:20, 1989, p. 374. A questo saggio sono largamente debitrice per il mio studio.

 

[11] Fanny e Alexander è il lungometraggio con cui, nel 1983, Bergman si congedò dal cinema per dedicarsi unicamente al teatro e alla narrativa.

 

[12] Data alle stampe nel 1987.

 

[13] L’analisi si riferisce alla registrazione su videotape della prima (16 aprile 1988), da me visionata presso l’archivio di Dramaten. Il cast comprendeva: Jarl Kulle nel ruolo di James Tyrone, Bibi Andersson in quello di Mary, Thommy Berggren nella parte del figlio maggiore Jamie e Peter Stormare in quella di Edmund. La parte - fortemente ridotta - della cameriera Cathleen era interpretata da Kiki Bramberg.

 

[14] Vedi: Marker,F. & Marker, L.L., Ingmar Bergman. Tutto il teatro, Milano, Ubulibri, 1996, p.12.

 

[15] Ibid., p. 247.

 

[16] “La nostra breve vita è circondata dal sonno”. Shakespeare, W., La tempesta, traduzione di G. Baldini, Milano, Bur, 1973, pp.234-235.

 

[17] “compassione, comprensione e perdono per tutti e quattro i perseguitati Tyrone”. O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, London, Jonathan Cape, 1956, p.5.

 

[18] “L’autore ha cercato di imitare la forma sconnessa ma apparentemente logica del sogno. Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono; su una base minima di realtà l’immaginazione disegna motivi nuovi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni. I personaggi si scindono, si raddoppiano, si sdoppiano, svaniscono, prendono consistenza,  si   sciolgono  e  si  ricompongono.    Una  coscienza,  tuttavia, sovrasta tutte, quella del sognatore: per  essa non ci sono segreti, inconseguenze, scrupoli, leggi. Egli non condanna, non assolve, solo riferisce; e poiché il sogno il più delle volte è doloroso, solo di rado lieto, una nota di malinconia e di pietà verso quanto è vivente attraversa il vacillante racconto”. Strindberg, A., Ett Drömspel, in: August Strindbergs Samlade Verk, Nationalupplagan, Stockholm, Norstedts, Vol. 46, 1988, p. 7. Traduzione di G. Zampa in: Strindberg, A., Il sogno, Milano, Adelphi, 1994, p.11.

 

[19] Nella pièce di O’Neill, come in vari “quartetti” di Lars Norén, questo compito di mediazione nell’arena famigliare è affidato al personaggio del figlio (o della figlia) minore. Si veda quanto detto a proposito di David in: III.2.1., p. 116; III.2.2., pp.123-124.

 

[20] Così lo definisce Marker nella sua analisi dello spettacolo, in: Marker, F. & Marker, L.L., op. cit., p. 246.

 

[21] Citato in: Marker, F. & Marker, L.L., op. cit., p. 246.

 

[22] Ibid., p.246.

 

[23] “quei conflitti della mente nascosti in profondità, che le indagini della psicologia continuano a rivelarci”. O’Neill, E., “Memoranda on Masks”, contenuto in: Cargill, O. et al. (eds), O’Neill and His Plays. Four Decades of Criticism, New York, New York University Press, 1961, p. 116.

 

[24] Vedi p. 142.

 

[25] Vedi p. 142.

 

[26] “È possibile raggiungere una moderna approssimazione psicologica del sentimento del fato nella tragedia greca, che sia in grado di colpire e commuovere un intelligente pubblico moderno, privo della fede negli dei o nel concetto della retribuzione sovrannaturale?”. Estratto dal diario di lavoro di O’Neill al tempo della  composizione di Mourning Becomes Electra; citato in: Frenz, H. (ed.), American Playwrights on Drama, New York, Hill & Wang, 1965, p. 3.

 

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