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Capitolo III
Lars Norén e il dramma della “stanza chiusa”

III.1.2. Autobiografia e terapia

Poco tempo dopo aver terminato Modet att döda, Norén ricevette notizia della morte del padre e, profondamente turbato dal riflettersi della sua creazione artistica nella realtà[1], iniziò una terapia analitica che ebbe come effetto immediato lo scatenarsi di un’enorme produttività drammaturgica: ben tredici pièces furono composte  nell’arco di quattro anni,  dal 1980 all’84, fra  esse  anche  i  due  capolavori  Natten är dagens mor  e  Kaos är granne med Gud, che consacrarono Norén come uno dei massimi drammaturghi svedesi dopo Strindberg e la cui impostazione autobiografica conferma quanto la sua opera sia frutto di “en alltmer terapeutisk  själviakttagelse”[2].

Al pari del suo insigne connazionale, Norén ha sempre sperimentato un forte senso di identificazione tra vita e opera letteraria e ha ammesso di relazionarsi al teatro come a uno strumento psicoanalitico, da utilizzare - sia da chi lo scrive/allestisce/recita, sia dal pubblico che ne fruisce - per raggiungere una maggior conoscenza di sé, attraverso la “confrontazione immediata” che lo spazio scenico consente:

För mig är konstnärligt skapande ett sätt att nå sådan kunskap om sig själv, om sitt liv, att man måste förändra det, [...] en omedelbar konfrontation. [...] Jag tror att det är med mina pjäser som med psykoanalys: [...] i analysen, när en    människa talar i ett “idealt rum”, så sägs alltid förr eller senare det  väsentliga. Så vandrar alltid personerna i mina pjäser mot sig själva.[3]

Scrittura e rappresentazione di un dramma non sono solo “uno specchio da mettere di fronte alla natura umana”, secondo la celebre definizione amletica del teatro, ma anche e soprattutto una lampada che illumina la realtà e il cui fascio di luce contribuisce a mutarne il corso[4]:  esse scaturiscono da una esigenza “confessionale”, per la quale “smärtan ska sägas ut i hopp om en förlösning, någon sorts förståelse”[5]. Sottolinea ancora Norén: “när jag skriver [...] måste det vara livsviktigt, då jag kommer ut ur det måste jag komma ut som en annan, förändrad”[6].

Questa percezione della scrittura come mezzo per dar forma  sempre  nuova  alla propria identità  ha  spinto la  critica  a leggere la produzione di Lars Norén come “en individuationshistoria i olika faser”[7], in cui i cambiamenti di genere  (dalla  lirica  al  romanzo  al  dramma),  stile  e  temi trattati  (dal dramma storico a quello domestico a quello documentario, per giungere agli esperimenti degli ultimi anni con una drammaturgia “degli esclusi”[8] dal forte impatto sociale)  riflettono “ett subjekt i process”[9], ossia la volontà, da parte dell’autore, di sfuggire alla banalità delle classificazioni attraverso la rappresentazione di referenti esterni continua-mente diversi, in una sperimentazione costante che ha il verso di Rilke “du musst dein Leben ändern”[10] come imperativo  etico  ed  estetico.   

L’opera di Norén costituisce, in questo senso, un eterno viaggio alla scoperta delle sorgenti creative e delle possibilità  di  mutamento  insite  nell’individuo, ed è stata efficacemente equiparata alla messa in atto di uno junghiano “processo d’individuazione”[11], dove la “stanza chiusa” rappresenta il principio scenico e psicologico attorno a cui ruota la varietà di forme e soluzioni drammaturgiche sperimentate.


[1] “Jag brukar säga till mig själv att jag ska vara mycket försiktig med vad jag skriver, för det blir så. [...] Min pappa dog samtidigt som jag skrev denna pjäs [Modet att döda, n.d.t.]. [...] På något sätt gick hans död levande in i pjäsen” (Sono solito dire a me stesso che devo stare molto attento a ciò che scrivo, poiché esso accade. Mio papà morì mentre io scrivevo   quel   dramma.    In  un  certo  senso,  la  sua  morte  camminò  viva  dentro al dramma). Così ha dichiarato Norén in una conversazione-intervista con Lars Nylander, riportata in: Nylander, L., op. cit., p. 357.

 

[2] “un’autoanalisi sempre più terapeutica”. Lönnroth, L. och Göransson, S. (eds), Den svenska litteraturen, Vol. VI, 1950-1985, Stockholm, Bonniers, 1990, p. 153.

 

[3] “La creazione artistica è per me un modo di conquistare una tale conoscenza di sé, della propria vita, da doverla trasformare, una confrontazione immediata. Credo che le mie pièces funzionino come la psicoanalisi: nell’analisi, quando una persona parla all’interno di uno ‘spazio ideale’, prima o poi le cose importanti vengono dette. Allo stesso modo, i personaggi dei miei drammi si muovono sempre verso se stessi”. Citato in: Janzon, L., “Samtal med Lars Norén”, Entré, nr 1, 1982, pp. 24; 26.

 

[4] Norén ha affermato in un’intervista: “Jag använder pjäserna som en lampa för att se” (Mi servo dei drammi come di una lampada per vedere). Vedi: Björksten, I., “Trötta ut publiken”, Svenska Dagbladet, 20.8.1990.

 

[5] “la sofferenza deve essere esternata sotto forma di linguaggio, nella speranza di un riscatto, una sorta di comprensione”. Ibid.

 

[6] “Quando scrivo, dev’essere d’importanza vitale; nel momento in cui ne esco [cioè: quando termino l’atto dello scrivere, n.d.t.], devo uscirne come un’altra persona, trasformato”. Riportato in: Nylander, L., op. cit., p. 350.

 

[7] “una storia di identificazione in più fasi”. Van Reis, M., “Den omänskliga komedin”, efterskrift till: Norén, L., De döda pjäserna, Vol. IV, Stockholm, Bonniers, p. 260.

 

[8] “Ett drama om samhällets och folkhemmets mest utstötta” (Una drammaturgia sulle persone più emarginate dalla società e dallo stato sociale). Il commento, che concerne la produzione del drammaturgo a partire dalla metà degli anni Novanta, è riportato nel programma di Skuggpojkarna (I ragazzi-ombra), l’ultima pièce finora scritta da Norén e rappresentata a Dramaten nell’autunno 1999.  L’evoluzione dell’opera di Norén negli ultimi dieci anni (dai quartetti borghesi, agli affreschi di sapore cechoviano sui pazienti di cliniche per malati mentali, fino al “teatro-verità” sui carcerati, realizzato in tempi recentissimi non senza polemiche)  è impressionante. Norén si conferma, in qualità di sperimentatore di stili e generi drammatici, come il degno successore di Strindberg.

 

[9] “un soggetto in progressione [cioè: che progredisce e si trasforma in maniera costante, n.d.t.]”. Così la semiologa e psicoanalista Julia Kristeva chiama l’identità che si determina e arricchisce attraverso il superamento di sempre nuove prove. Si veda in proposito: van Reis, M., “Det slutna rummet. En essä om gränser hos Lars Norén”, in BLM, 1:1988, p. 23.

 

[10] “devi cambiare la tua vita”.  Il  verso è tratto dalla poesia di  R. M. Rilke  “Archaischer Torso Apollos”, una delle più amate da Norén e citata in: Nylander, L., op. cit., p. 311.

 

[11] Vedi: Nylander, L., op. cit., p. 276.  C.G.Jung denominò “processo d’individuazione” il graduale realizzarsi della personalità umana attraverso continui cambiamenti e inevitabili conflitti/tensioni/separazioni.

 

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