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Capitolo II
Long Day’s Journey into Night

II.3.2. Influssi tematici

Il drammaturgo moderno doveva, secondo O’Neill, “dig at the roots of the sickness of today as he feels it”[1]: “those profound hidden conflicts of the mind, which the probings of psychology continue to disclose to us”[2].  Rivelare i conflitti nascosti della psiche umana fu anche lo scopo principale  di Strindberg, il quale aveva individuato nella coppia e nella famiglia tradizionali un campo di studio ideale (come già le pièces di Ibsen avevano dimostrato)  delle forze  in gioco nelle relazioni umane.  Vent’anni prima delle indagini freudiane, e in maniera più intensa rispetto al suo immediato predecessore Ibsen, Strindberg aveva ben chiaro che la famiglia - “djävla familjen” (maledetta famiglia), come era solito chiamarla - era innegabilmente il luogo privilegiato dei  dispotismi, dei bassi egoismi, insomma dell’espressione, nel bene e nel male ma soprattutto nel male, delle passioni umane più profonde, se non altro per il fatto di implicare la convivenza, in uno stesso angusto ambiente, di individui anche profondamente diversi.

La difficoltà e l’intensa conflittualità della convivenza famigliare costituiscono il tema di innumerevoli pièces strindberghiane.  Da Fadren  (1888) a Bandet (1892), da Dödsdansen (1900) ai “kammarspel” Pelikanen e Spöksonaten (1907), senza dimenticare le incursioni nell’inferno domestico dell’avvocato e di Agnes in Ett Drömspel (1901), la produzione di Strindberg è costellata di situazioni famigliari in cui l’atmosfera è quella tesa, soffocante e gravida di contrasti che abbiamo descritto a proposito di Journey, anche se bisogna riconoscere che i Tyrone non si spingono mai  alle vette di violenza psicologica e verbale, cui giungono facilmente i personaggi dello svedese[3].

Un altro aspetto che rendeva Strindberg particolarmente interessante agli occhi di O’Neill era il suo insistere sul concetto di un destino “interno” all’individuo (e alla cellula  famigliare), quello a  cui O’Neill si riferisce spesso con l’espressione “psychological fate”:

[...]fate from within the family is modern psychological approximation of the Greek conception of fate from without, from the supernatural [...]: passions engendered in family past [...] constitute family fate.[4]

Quando,  nella  prefazione  a  Fröken Julie,  Strindberg   descrive la protagonista come “ett offer för den disharmoni en moders ‘brott’ framkallat inom en familj [...], vilket [...] eqvivalerar det gammaldags Ödet eller Universi lag”[5], il pensiero va al personaggio di Lavinia Mannon in Mourning Becomes Electra. Presa com’è nella trappola di un sistema maligno, in cui le colpe dei padri (e delle madri) ricadono implacabili sui figli e dove l’odio si trasmette da una generazione all’altra come in un contagio, anche Lavinia potrebbe esclamare, come fa Julie: “nu hämnas min mor igen, genom mig! [...] Vad rör det oss vems felet är; det är ändå  jag som får bära skulden!  Bära följderna!”[6].  In effetti, le parole con  cui  Lavinia  chiude dietro di  sé  il  portone  di casa Mannon (e, insieme ad esso, l’imponente trilogia o’neilliana)   fanno   eco al dramma di Strindberg:  “I’ll live alone with the dead [...] and let   them hound me, until the curse is paid out”[7].  

Anche Long Day’s Journey into Night è attraversato da un’analoga preoccupazione per la “maledizione”[8] ciclica, che affligge la famiglia come un virus:  il presente e il futuro sono una cosa sola con il passato dei Tyrone, che alla sorte famigliare non possono sfuggire poiché scorre loro nelle vene, dunque li seguirà ovunque essi vadano, fino alla morte.   Il concetto di “family-as-fate”[9], su cui insiste spesso la critica o’neilliana, era già stato splendidamente formulato da Anna Christie, la quale, riconoscendo di doversi inevitabilmente identificare con i suoi progenitori e con le loro debolezze, dichiarava con laconica eloquenza nel dramma omonimo: “It’s in the blood”[10]

Volendo circoscrivere l’analisi a Journey, si possono mettere in evidenza numerosi parallelismi tematici fra  il dramma e le  pièces di Strindberg.  Ad esempio, sia in Fröken Julie che in Fadren i protagonisti lamentano l’angoscia di  sentirsi figli non voluti dai propri genitori.  Julie confessa a Jean: “Jag kom till världen mot min mors önskan”[11]; il capitano sfoga la sua frustrazione con la moglie:

Far och mor ville icke ha mig och därför föddes jag utan vilja. [...] Min mor, som icke ville ha mig till världen, därför att jag skulle födas med smärta, [...] berövade mitt första livsfrö dess näring och gjorde mig till en halvkrympling.[12]

In Journey Edmund esprime il presentimento di essere per la madre un mero sostituto del fratello morto, quando esclama:

It was a great mistake my being born [...]. As it is, I will always be a stranger who never feels at home, who does not really want and is not really wanted, who can never belong, who must always be a little in love with death![13]

E il presentimento è confermato dalle parole di Mary: “I never should   have born Edmund [...].  I  meant, for his sake.  He has never been happy.  He never will be.  Nor healthy, and that’s my fault”[14].

Dödsdansen fornì a O’Neill l’ambientazione feticcio del dramma famigliare: l’opprimente stanza di soggiorno, spazio totalizzante, isolato dal mondo esterno, dove si confrontano i protagonisti di tanto teatro americano e, per primi, i quattro Tyrone.  Di questa pièce Journey ripropone, fra l’altro: la commistione di amore e odio tra i personaggi (“det kallas kärlekshatet och är från avgrunden!”[15]), il loro continuo chiedersi di chi è la colpa, la condizione della moglie insoddisfatta perché ha dovuto sacrificare la propria carriera artistica al marito, lo stratagemma del gioco delle carte come pretesto per far passare un tempo che pare immobile.

La comparsa di Mary in salotto alla fine di Journey rimanda all’improvvisa apparizione (anch’essa dal forte carattere fantasmatico) del personaggio della mummia[16] in Spöksonaten: entrambe si comportano come sonnambule, e il loro linguaggio sconnesso ha la qualità irreale del sogno. Ancora, sia O’Neill che Strindberg sono maestri nel far aleggiare sul palcoscenico l’ombra di personaggi che in quel momento non sono in scena: in Journey, lungo tutto il  Quarto Atto risuonano i passi di Mary che, al piano di sopra, “is  moving around a lot”[17];  in  Fröken Julie   Kristin   domanda a Jean:  “Vem är det som vandrar däroppe? [...] Det kan  väl aldrig vara greven heller som kommit hem så ingen hört  honom!”[18].   Strindberg indica, nella prefazione al   dramma,   che  lo  spirito  del   padre  deve “sväva  över  och bakom det hela”[19], facendo così da referente invisibile all’azione; parimenti,  Edmund  reagisce  ai  rumori  prodotti  dalla  madre  dicendo: “she moves  above and beyond  us, a ghost haunting  the  past”[20].    L’eco dei passi  di  Mary  rinvia automaticamente anche al dramma di Ibsen John Gabriel Borkman, in cui il protagonista cammina freneticamente su e giù chiuso nella sua stanza[21]Secondo Jean Chothia:

Ibsen and Strindberg create the impression of a world outside the stage space through the dialogue and gesture of the characters who view and often try to resist it but on whom it impinges.[22]

Con questa danza di corrispondenze - che dimostrano quanto vasta fu la gamma di soggetti e atmosfere strindberghiane (senza dimenticare l’importanza tutt’altro che secondaria di Ibsen) che O’Neill assorbì nella sua opera - si potrebbe continuare a lungo, ma dobbiamo ora volgerci all’esame dell’aspetto forse più significativo che O’Neill mutuò da  Strindberg, ovvero la  rivoluzionaria tecnica drammaturgica denominata dall’autore stesso “supernaturalismo”.


[1] “scavare alle radici della malattia contemporanea come ella/egli la percepisce”. Lettera a G.J. Nathan citata in: Törnqvist, E., “Miss Julie and O’Neill”, p. 355.

 

[2] “quei conflitti della mente nascosti in profondità, che le indagini della psicologia continuano a rivelarci”. O’Neill, E., “Memoranda on Masks”, contenuto in: Cargill, O. et al. (eds), op. cit., p. 116.

 

[3] C’è un odio profondo, quasi delirante, nelle parole che Alice rivolge al marito in Dödsdansen: “O, om elden tog i huset...om havet ville stiga och ta bort oss! [...]Detta är helvetet!” (Oh, se la casa andasse a fuoco...se il mare si sollevasse e ci portasse via! Questo è l’inferno!). Strindberg, A., Dödsdansen, in: August Strindbergs Samlade Verk, Nationalupplagan, Stockholm, Norstedts, Vol. 44, 1988, pp. 58, 68; tutte le citazioni dalle opere di Strindberg sono tratte da quest’edizione. C’è invece solo una grande amarezza nelle accuse, per quanto aspre, che i Tyrone si lanciano l’uno contro l’altro. Forse l’unico “dramma famigliare” di O’Neill in cui si percepisce una crudeltà di stampo strindberghiano è la trilogia Mourning Becomes Electra (1931).

 

[4] “il destino interno alla famiglia è una moderna approssimazione in termini psicologici della  concezione  greca  di  fato [la Moira di Omero, n.d.t.] che  agisce  dall’esterno, dalla sfera sovrannaturale: le passioni concepite nel passato della famiglia costituiscono il destino famigliare”. O’Neill, E., “Working Notes and Extracts from a Fragmentary Work Diary”, contenuto in: Frenz, H., op. cit., pp. 10-11.

 

[5] “la vittima di un conflitto provocato in una famiglia dal ‘delitto’ di una madre, cosa che equivale alla vecchia nozione di Destino o di Legge Universale”. Strindberg, A., Fröken Julie, in: op. cit., Vol. 27, 1984, p. 106.  Il “delitto” è, nel caso specifico, un’educazione di tipo maschile, che è stata impartita a Julie per volontà della madre e che ha fatto la rovina della giovane.

 

[6] “adesso mia madre si vendica di nuovo attraverso di me! Che importa sapere di chi è la colpa? Sono comunque io a doverla portare, a sopportarne le conseguenze”. Ibid., pp. 186-187.

 

[7] “Vivrò sola coi morti e lascerò che mi perseguitino, finchè la maledizione non si sarà esaurita”. O’Neill, E., Mourning Becomes Electra, in: The plays of Eugene O’Neill, Vol. 2, New York, Random House, 1955, p. 178.

 

[8] In proposito si rimanda a: Nota 141, p. 51.

 

[9] Vedi: Pfister, J., op. cit., p. 22. Vari altri drammi di O’Neill hanno a che fare con la “fateful family interaction” (ibid., p. 48): oltre al già ricordato Mourning Becomes Electra, il tema della maledizione famigliare è sviluppato in: Desire Under the Elms (1924), Anna Christie (1921)  e Strange Interlude (1928).

 

[10] “È nel sangue”. O’Neill, E., Anna Christie, in: The Plays of Eugene O’Neill, Vol. 3, p. 9.

 

[11] “Io venni al mondo contro il desiderio di mia madre”. Strindberg, A., Fröken Julie, in: op. cit., p. 161.

 

[12] “Papà e mamma non volevano  avermi [Corsivo dell’autore, n.d.t.] e perciò sono nato privo di volontà [Corsivo mio,n.d.t.]. Mia madre, che non voleva darmi alla luce poiché nascendo l’avrei fatta soffrire, privò di nutrimento il mio primo germe vitale e fece di me un mezzo storpio”. Strindberg, A., Fadren, in: op. cit, Vol. 27, 1984, pp. 7; 98.

 

[13] “La mia nascita è stata un grande errore. Per come stanno le cose, sarò sempre un estraneo che non si sente mai a casa, che non ha vera volontà né è realmente voluto [Corsivo mio, n.d.t.],  che non potrà mai mettere radici, che dovrà sempre essere un po’ innamorato della morte”. O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, p. 135.

 

[14] “Non avrei mai dovuto mettere al mondo Edmund. Volevo dire, per il suo bene. Non è mai stato felice. E non lo sarà mai. E nemmeno sano, ed è colpa mia”. Ibid., p. 76. Sull’argomento si rimanda a: Nota 156, p. 56.

 

[15] “Lo chiamano odio d’amore, e ha origini profonde”: così commenta Kurt dopo aver ascoltato il resoconto della vita coniugale di Alice e del Capitano. Strindberg, A., Dödsdansen in: op. cit., p. 55.

 

[16] La corrispondenza è rafforzata da una testimonianza di O’Neill: egli dichiarò che il personaggio strindberghiano (che vive chiuso in un armadio) gli ricordava l’esistenza da semireclusa, condotta dalla madre quando era dipendente dalla droga. Riportato in: Törnqvist, E., “Strindberg and O’Neill”, p. 289. Nei kammarspel e nell’opera tarda di Strindberg sono numerosi i personaggi “ombra”, essi stessi consapevoli del proprio sonnambulismo, come la Gerda di Pelikanen, o la lattaia di Spöksonaten.

 

[17] “continua a muoversi di qua e di là”. O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, p. 118.

 

[18] “Chi è che cammina di sopra? Non sarà mica il conte [i cui stivali sono rimasti in scena per tutta la durata del dramma, evocando il personaggio assente, n.d.t.] che è tornato senza che nessuno l’abbia sentito?”. Strindberg, A., Fröken Julie, in: op. cit., p. 174.

 

[19] “librarsi sopra e attorno [corsivo mio, n.d.t.] al tutto”. Ibid., p. 109.

 

[20] “si muove sopra di noi e in un’altra dimensione [corsivo mio, n.d.t.], uno spettro che rivisita incessantemente il suo passato”. O’Neill, E., Long Day’s Journey into Night, p. 133.

 

[21] Nel dramma, la moglie Gunhild commenta: “Stadig å høre hans skritt der oppe. Like fra den tidlige morgen till langt på natt. Og så lytt som her er her nede![...]Mangen gang kommer det meg for at jeg har en syk ulv gående i bur der oppe på salen.[...]Hør bare, du! Frem og tilbake, frem og tillbake” (Ah, dover continuamente sentire i suoi passi là sopra. Dal mattino presto a notte fonda. E sentirli rimbombare così qui sotto! Spesso ho come l’impressione di avere, su in sala, un lupo malato che si aggira chiuso in gabbia. Ma ascolta! Su e giù, su e giù). Ibsen, H., John Gabriel Borkman, in: op. cit., p. 443.

 

[22] “Ibsen e Strindberg creano l’impressione di un mondo [che esiste] fuori dallo spazio scenico attraverso il dialogo e la gestualità dei personaggi, i quali ne hanno coscienza e spesso cercano di resistergli, ma che [alla fine] ne vengono travolti”. Chothia, J., “Trying to Write the Family Play: Autobiography and the Dramatic Imagination” in: Manheim, M., op. cit., p. 200.

 

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